martedì 2 novembre 2010

CIAK & INCEPTION: quando un sogno diventa realtà

Tra i circa 2.000 lettori che hanno inviato la loro recensione di INCEPTION alla nota rivista di cinema, CIAK ha selezionato 25 fortunati da premiare con la mitica trottola di Cobb formato portachiavi e la pubblicazione di alcuni stralci delle critiche vincenti nel numero di Novembre.
A pag. 5, in mezzo a quei 25 nomi c'è anche il mio - Catia Pieragostini, Bologna - mentre qui di seguito riporto la recensione che ho dovuto ridurre a 1500 battute per poter partecipare. Quando il sogno (tra scrittura e cinema) diventa realtà...



E' meno innovativa di MEMENTO e meno impeccabile di THE PRESTIGE, ma l'ultima fatica di Nolan merita senza dubbio una visione su grande schermo.
Nell'immediato futuro lo spionaggio industriale si pratica carpendo i segreti direttamente nella mente dei magnati, introducendosi nei loro sogni. A Dom Cobb, ladro più abile tra tutti gli
estrattori, viene però chiesto di innestare un'idea anziché rubarla.
Questa la premessa d'INCEPTION: qui “
il virus più resistente è un'idea”, i sogni possono essere condivisi da più persone contemporaneamente, le difese del nostro subconscio indossano giacca e cravatta sparando con armi di grosso calibro.
E' il più sofisticato degli action movie dove inseguimenti, sparatorie e scazzottate acquistano nuova credibilità perché si svolgono nelle menti dei protagonisti sognatori. Nei sogni, si sa, tutto è possibile, come al cinema, e il
sogno nel sogno prende vita sia all'interno della storia che sul grande schermo.
Qui personaggi come il Falsario spiegano in due parole le teorie junghiane meglio del vostro psicanalista, con
qualità tecnica e artistica dell'insieme a compensare qualche buco nella linearità dei concetti esposti.
Infine, bando al cattivo di turno che qui non c'è: i pericoli derivano tutti dalla nostra mente, cioè dalla mente del tormentato/tenace Cobb-Di Caprio, davvero
in parte nel dare vita, con la Cotillard, alla parallela trama romantico-drammatica fusa con quella d'azione.
Un imponente, raffinato, intenso gioco di scatole cinesi...

domenica 31 ottobre 2010

CATTIVISSIMO ME - adorabile semplicità

Graficamente appagante e molto ben riuscita nella caratterizzazione dei personaggi, questa pellicola animata inaugura con delicata simpatia la sfida che la Universal lancia alle “veterane” DreamWorks e Pixar.
Non sarà un capolavoro di meravigliosa ed esilarante originalità come tanti tra i titoli delle due Case appena citate, ma 'Cattivissimo Me' presenta comunque innumerevoli occasioni di sorriso come di tenerezza, nonché piacevoli e gustose soluzioni di sceneggiatura.
In un mondo dove è aperta la gara tra chi è il più cattivo di tutti ed esiste una banca che segretamente incentiva i più fantasiosi crimini contro l'umanità, il crudele di professione Gru si contende il primato di miglior “despicable” col più giovane Victor/Vector.
Per vincere la sfida e portare a termine un'impresa impossibile (rubare la luna), i due si combattono con l'ausilio di stupefacenti tecnologie, finché Gru non intuisce che avrà bisogno di un insospettabile elemento umano (ovvero tre orfanelle) per poter penetrare nella fortezza del rivale e privarlo di uno straordinario miniaturizzatore.
Ma l'elemento umano, si sa, è il più imprevedibile di tutti, recando con sé effetti collaterali che vanno a minare gli insani principi di inossidabile cattiveria del nostro Gru...
Questa storia assai lineare e già nota è però trattata con giusto brio e misurato buongusto e ha una nota di merito non da poco nel presentare finalmente tutte gag comprensibili non solo dal pubblico adulto, ma anche e giustamente dai bambini.
Persino le numerose citazioni cinefile (una per tutte, la scena allo specchio di Taxi Driver “Stai parlando con me? No dico, stai parlando con me? ”) sono confezionate in modo impeccabile perché possano suscitare le risate dei più piccoli e questo è senza dubbio un pregio non trascurabile.
Oscar alla simpatia, infine, per l'esercito dei Minions, gli ominidi gialli tuttofare nel laboratorio segreto di Gru: un perfetto incrocio tra gli Umpa Lumpa di Willy Wonka e i Little Green Men di Toy Story davvero spassoso.
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martedì 5 ottobre 2010

INCEPTION - Il sogno secondo Nolan

Sebbene meno sobrio, rigoroso e innovativo di MEMENTO, con un meccanismo non del tutto perfettamente oliato rispetto all'impeccabile costruzione di THE PRESTIGE, quest'ultima fatica del regista e sceneggiatore Christopher Nolan merita senza dubbio una visione su grande schermo.
In un futuro nelle nostre immediate vicinanze, dove lo spionaggio industriale si pratica carpendo i segreti direttamente nella mente dei magnati, introducendosi nei loro sogni, un gruppo di professionisti ai limiti della legge vende i propri servigi testando questa affascinante quanto improbabile attività direttamente sui futuri acquirenti.
A Dom Cobb (Di Caprio), il ladro più abile tra tutti gli "estrattori", viene però chiesto di innestare un'idea anziché rubarla.
Questa la breve premessa che c'introduce nell'universo immaginato da Nolan, dove “il parassita più resistente è un'idea”, dove i sogni possono essere condivisi da più persone contemporaneamente, dove le difese del nostro subconscio contro le intrusioni esterne indossano giacca e cravatta sparando con armi di grosso calibro.
Quest'ultimo particolare sintetizza in buona sostanza uno dei 3 aspetti più originali del film: ci troviamo di fronte al più sofisticato degli action movie, dove gli scatenati inseguimenti, le sparatorie e le scazzottate acquistano, paradossalmente, una nuova credibilità perché si svolgono nelle menti dei protagonisti sognatori. E nei sogni, si sa, tutto è possibile.
Anche al cinema tutto è possibile e qui sta il doppio gioco di Nolan: il “sogno nel sogno” prende vita sia all'interno della storia che sul grande schermo. E lo show è assicurato.
Il secondo aspetto originale è che troverete personaggi very cool, primo fra tutti il Falsario, capaci di spiegarvi in quattro e quattr'otto le teorie junghiane meglio del vostro psicanalista e sicuramente in modo meno tedioso.
Detto così sembrerà un tantino sincopato e forse non del tutto credibile, ma la qualità tecnica e artistica dell'insieme compenserà qualche buco nella linearità dei concetti esposti.
Ultimo, ma non da meno, il tocco più unico che raro: il personaggio più affascinante non è il "cattivo di turno", perché il cattivo si è preso un turno di riposo e in questo film proprio non c'è.
I pericoli derivano tutti dalla nostra mente, in questo caso dalla mente dell'intenso, tormentato, innamorato, paterno, tenace, Dom Cobb, un Leonardo Di Caprio “straordinariamente in parte”, come si suol dire, capace di dare vita, con la sua coprotagonista femminile, alla parallela trama romantico-drammatica che s'intreccia con quella d'azione.
Non lasciatevi spaventare dai 148' della durata, né dalla presunta "complicanza" del film: è vero che a volersi addentrare nella psiche umana il viaggio risulterà lungo e insidioso con rischio di perdersi nei suoi meandri, ma per gli amanti dello spettacolo in grande stile non ci sarà tempo di annoiarsi né di porsi troppe domande sul perché e sul per come.
Uscirete dalla sala con qualche dubbio ancora in testa (induzione al senso critico che non guasta), apprezzando la raffinatezza dell'imponenza scenografica e di alcune memorabili sequenze, cogliendo qualche citazione un po' archetipica (l'Architetto si chiama Ariadne) un po' cinefila (inseguimenti sulla neve alla 007), ammirati per la resa scenica di Di Caprio e della Cotillard (che bello vedere attori che sanno recitare anche in un film d'azione!), con, infine, la certezza assoluta di esservi divertiti. E, insomma, non è poco.
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sabato 25 settembre 2010

SHREK ci lascia... insoddisfatti

Nelle sale potete ancora trovarlo e i vostri figli ancora vi chiedono di portarli a vederlo.
Così ce li dovrete accompagnare, anche se già il terzo capitolo non vi era piaciuto granché con gli sceneggiatori che denotavano un netto calo di fantasia proprio nel territorio dove la fantasia dovrebbe regnare sovrana.
E se Shrek 3 non reggeva minimamente il confronto con i primi due, questo quarto e (si spera) ultimo episodio dell'orco più famoso del pianeta soddisfa a malapena i criteri minimi per giustificare la spesa del biglietto (sempre più esorbitante).
Con l'inserimento di un unico nuovo personaggio (un cattivo da manuale senza infamia e senza lode) e lo spostamento dell'azione in una realtà “altra” (con rischio di paradosso temporale che vi costringerà a dare spiegazioni in corso ai più piccini), la DreamWorks stavolta perde la gara dei sequel contro la Disney-Pixar (Toy Story 3 è un capolavoro).
Shrek con la crisi di mezza età e Fiona a capo di orchi guerrieri, ma sempre principesca, sono di nuovo alle prese col “bacio di vero amore”, però senza più brio, irriverenza, originalità.
Voto personale 2 stelle e ½, ma ai vostri figli piacerà, con commenti che oscilleranno da “Ve l'avevo detto io che era bello!” a “Beh, pensavo peggio.”
Chi si accontenta...
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martedì 7 settembre 2010

IL CONCERTO VS Il rifugio


Accostamento per differenze in questa duplice recensione dove i film presi in esame hanno in comune solo la brevità del titolo, in entrambi i casi di due parole una delle quali è l'articolo "il".
Per il resto è come paragonare un cigno ad un ramarro.
Quelli di voi che preferiscono la seconda bestia alla prima, possono sicuramente apprezzare Il Rifugio, un esempio eclatante di come giovani autori francesi, credendo di avere talento, tentino di replicare l'arte di Truffaut e la poesia di Rohmer senza minimamente riuscirci.
Si buttano sull'intimismo di maniera, convinti che, per accontentarci, basti mettere in scena 4 gatti facendoli drogare, ingravidare, morire, accoppiare (secondo le tre possibili varianti: etero, omo e bisex), senza curarsi che il tutto, data la povertà dei dialoghi, risulti privo di reali conflitti interiori mai veramente approfonditi.
Ma questi francesi si sbagliano. Noi spettatori vogliamo di più!
A molti di noi piacciono i cigni, quei superbi animali che da brutti anatroccoli si trasformano in meraviglie della natura.
A chi cerca la meraviglia consiglio dunque IL CONCERTO, ancora reperibile in seconda visione, una pellicola che non ha bisogno né di effetti speciali, né di fotografia patinata, né di attori famosi per essere considerata un film bello come un cigno.
Il genio ironico di Radu Mihaileanu (già autore dell'originale Train de vie) ci offre ancora una volta la possibilità di sorridere (o anche di ridere) dei suoi affreschi sociali, microcosmi nel macrocosmo, che tanto bene sa dipingere con brevi e fresche pennellate. Accostando il suo talento per la commedia dolceamara ad emozioni forti e commoventi, è capace di esaltare lo spettatore.
Col solito gusto per la sceneggiatura brillante, sagace e di qualità, che narra di simpaticissimi disperati votati per sopravvivenza ad imprese impossibili, il regista ci coinvolge stavolta nella realizzazione di un improbabile concerto per violino (il N. 1 di Čajkovskij) ad opera di un'eterogenea, caleidoscopica e del tutto fittizia orchestra del Bolshoi di Mosca.
A metterla insieme, per poter suonare a Parigi sostituendo quella vera, è il maestro Andreï Filipov, un tempo grande direttore di fama mondiale, ora umiliato e degradato per mano del regime comunista dall'epoca di Brežnev.
In cerca di riscatto personale e con un duplice e profondo desiderio di chiudere i conti con il proprio passato, il maestro viene fiancheggiato da sublimi personaggi di contorno, che a tratti gli rubano la scena, in una girandola di avvenimenti sempre più incalzanti dove l'altro onnipresente protagonista è la passione.
In questo caso, la passione che solo la Musica con la "M" maiuscola sa ispirare, che ci travolge fin nel profondo e che qui trova la sua massima espressione proprio nel coinvolgente e straordinario concerto del titolo.
Un concerto che consiglio anche al regista François Ozon: che esca dal suo miserabile rifugio e lo vada a vedere ed ascoltare per capire come va fatto un film.

lunedì 16 agosto 2010

SPLICE - una congiuntura di "già visto".

Se nella vostra vita avete guardato anche solo un paio di film di fantascienza e un paio di film dell'orrore, allora avete già visto tutto quello che c'è da vedere in questo SPLICE.
Qualora l'intento del regista/sceneggiatore Vincenzo Natali fosse quello di ammonirci sul pericolo dello sfrontato progresso scientifico ad ogni costo, possiamo anche dire che, ok, ci ha avvisati con l'ennesimo monito: condivisibile, anche se poco originale.
Ma la pellicola era annunciata come rivisitazione intelligente di una tematica trita e ritrita per i due generi sopra citati, mentre ha in realtà ben poco da aggiungere sull'argomento:
“manipolazione genetica + mostro di Frankenstein = grane a non finire”.
Anziché il solito scienziato pazzo che si vuole sostituire a Dio per salvare/migliorare/modificare il genere umano, qui di scienziati ne troverete una coppia, maschio e femmina, che vive e lavora in tandem da sette anni, lei con la mania del controllo e lui amante della buona musica.
Questo fatto che i casinisti genialoidi siano una coppia pseudo-genitoriale è l'unico elemento innovativo del film, insieme a qualche implicazione sessuale con pretesa d'incesto che lascia il tempo che trova.
Per il resto, la trama è presto detta: senza il minimo scrupolo per l'etica lei, completamente in balia degli eventi lui, creeranno un ibrido mescolando geni umani a quelli animali e, divorati dalla sete di conoscenza, precipiteranno verso una situazione che ovviamente sfugge loro di mano.
E, anche qui con pretesa d'innovazione, scelgono un bel mucchio di razze da shakerare tra cui avrete il piacere di riconoscere un draghesco pollo preistorico (le zampe e le ali del finale non lasciano dubbi), uno scorpione (dal pungiglione visibile anche nella locandina) e una salamandra (questa solo perché viene nominata da Adrien Brody). E poi li chiamano scienziati geniali?
Avessero scelto almeno i geni di un pappagallo e di un delfino forse la creatura, oltre ad essere più mite, simpatica e allegra, avrebbe anche imparato a parlare.
Perché è vero che crescendo apprende a leggere e scrivere nonché a provare sentimenti simil-umani, ma non ha il dono dell'eloquio... (E fargli guardare un po' di televisione per istruirla più in fretta no? Mah...)
Resisto alla tentazione di svelarvi proprio tutto, ma non a quella di proclamarmi indignata: un po' perché veramente in questo film, checché se ne dica, non c'è niente di nuovo sotto il sole, un po' per come vengono trattati i due generi, maschile e femminile.
Perché chiaramente qui il maschio ha solo due possibilità: o è completamente succube della femmina o è un aggressivo violentatore per definizione.
Per contro, sempre secondo questo film, le donne al potere sono chiaramente pericolosissime e megalomani e preferiscono, anziché salvare la propria specie, dare all'umanità un futuro d'incertezza potenzialmente letale per la razza umana.
Una totale delusione.

lunedì 2 agosto 2010

Il segreto dei suoi occhi

Ambientato sul finire degli anni '70, lontano dallo strapotere della Scientifica modello CSI senza cui le indagini odierne non vanno avanti, basato sulla tenacia d'investigatori vecchio stampo pronti a seguire una pista per una vita intera, condito da sentimenti così intensi da non trovare parole per essere espressi, recitato da attori straordinariamente in parte, IL SEGRETO DEI SUOI OCCHI è un film assolutamente da vedere.
La solida impostazione della sceneggiatura rende la trama impeccabile.
Lo spettatore è guidato per mano nella ricostruzione dei fatti che ruotano intorno ad un efferato delitto avvenuto venticinque anni prima e mai dimenticato dal protagonista, un funzionario nel tribunale di Buenos Aires, all'epoca costretto all'esilio dopo la conclusione delle indagini e ora scrittore che torna sui suoi passi per esorcizzare gli eventi di allora in un romanzo che sappia di espiazione.
Il corso della storia si svolge in parallelo tra i nostri giorni e il passato, ma in modo assai limpido, cosicché i numerosi flash back risultano perfettamente lineari e comprensibili. Nonostante l'impianto drammaturgico sia di stile classico e certo lontano dal caleidoscopico Made in USA, non vi è tempo di annoiarsi nella visione di questa pellicola di grande spessore.
Non mancano i virtuosismi registici come, ad esempio, ottimo l'uso dei grandi primi piani in semi-soggettiva, appena sopra la spalla di chi guarda, e ottimo il palpitante inseguimento - a piedi e osteggiato da folla e cemento - del sospetto, con appropriati scossoni di cinepresa e ritmo serratissimo.
Né mancano dialoghi di pregio pronunciati da attori in splendida forma, gli uni e gli altri pronti ad emozionarci mentre a poco a poco la realtà si svela, lasciandoci scoprire sangue e amore, amicizia e timore, vendetta e dolore.
Imperdibile e impagabile una delle ultime battute del film che non vi dirò, ma che racchiude, in meno di dieci parole, una grande verità: peggiore della morte è la mancanza di libertà mista ad indifferenza.
Ora sta a voi scoprire il segreto dei suoi occhi.
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lunedì 26 luglio 2010

TOY STORY 3 - Uno splendido sequel

Aspettavo al varco questo terzo e ultimo capitolo della serie di TOY STORY, saga animata in cui il mondo viene visto ad altezza giocattolo (con l'originalità di soluzioni sia d'inquadratura che di sviluppo dei personaggi che ne può conseguire).
L'aspettavo al varco perché, contrariamente a tanti sequel che gli americani ci propinano convinti che la minestra riscaldata piaccia a tutti, già da “Toy Story 2 – Woody e Buzz alla riscossa” si capiva che la Pixar era intenzionata ad offrirci ben più di un brodo annacquato.
E' questo il grande punto di forza di questi 3 capitoli: la geniale casa di animazione (la cui filmografia andrebbe vista per intero) è riuscita nella mirabile impresa di offrirci tre storie parimenti coinvolgenti, divertenti e qualitativamente notevoli senza che, all'uscita di ogni successiva pellicola, noi dovessimo rimpiangere la precedente.
La ricetta vincente della Pixar, oltre all'ottima caratterizzazione dei giocattoli animati di vita propria, sta nel far muovere i protagonisti di volta in volta in qualcosa di completamente nuovo, situazioni inaspettate che, sempre brillantemente, non mancano d'interessare ed emozionare.
Ad un ristretto gruppo di personaggi "storici" si aggiungono ad ogni episodio non più di due nuovi amici e un cattivo sempre diverso (e, soprattutto, degno di questo nome), mentre la panoramica sul mondo degli umani spesso passa dallo sguardo dei giocattoli tramite spericolate soggettive, con gradevole virtuosismo tecnico.
Pertanto, anche questo “Toy Story 3 – la grande fuga” non delude affatto e, anzi, chiude con grande maestria e sensibilità l'intera saga.
Grandiosa l'idea di spostare la scena dell'azione in un vero e proprio Paese dei Balocchi, ovvero l'asilo, dove, però, non è tutt'oro quel che luccica.
Ironiche e riuscitissime le new entry Barbie e Ken.
Succosi, gustosi e ben calibrati i dialoghi.
Intense e profonde le motivazioni che spingono gli eroi della storia alla riscossa: non solo l'amicizia leale e fedele che li lega tra loro, ma il senso radicato di appartenenza a qualcuno più grande di loro, senza cui non avrebbero motivo di essere creati, scopo e missione della loro esistenza.
Gran bella storia + gran bella qualità + gran bella regia = Gran bel film.
Buona visione.
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mercoledì 14 luglio 2010

BRIGHT STAR

Mrs. Jane Campion, col suo cinema, è grandemente abituata a tradurre le immagini in poesia.
Stavolta si cimenta con maestria nell'impresa opposta: traduce la poesia di John Keats in immagini.
E poiché la storia narra il nascere, il crescere e l'espandersi in modo esponenziale di un amore travolgente e totalizzante tra un grande poeta e la sua fulgida musa ispiratrice, il rischio di cadere nel melenso era in agguato.
Ma la Campion evita di far colare miele da ogni fotogramma in modo talmente sobrio e rigoroso da risultare fin troppo asciutto.
Quasi ci fa sentire la mancanza di qualche sospiro in più, dato che la sua cinepresa non si concede neanche un istante oltre il necessario per indugiare sulle scene più romantiche, o sui panorami più coinvolgenti, o sui volti intensi dei bravi protagonisti.
Resta sempre concentrata solo sull'essenza (e solo sull'essenziale) dei giovani e puri Fanny Browne e John Keats.
Lei, figlia maggiore di una vedova, ragazza dal carattere forte, civettuolo e appassionato, che scopre la forza incomprensibile della poesia e il fascino dell'autore, sfidando le convenzioni d'inizio Ottocento pur di vivere liberamente il suo amore.
Lui, spiantato genio incompreso, talentuoso creatore di musica in parole, inconsapevole promotore di un rivoluzionario movimento letterario (il Romanticismo, appunto), che resta incantato, ma anche ispirato, da una fanciulla bella e singolare per la sua lunaticità e avidità di sapere e di passione.
La regista ci racconta l'impossibilità di consumare in pienezza e armonia un grande amore, ostacolato principalmente dai pochi mezzi e dalla salute precaria del giovane poeta, con un'ambientazione e dei ruoli di contorno ridotti all'osso.
Forse compie questa scelta perché non distogliessimo troppo l'attenzione dal cuore pulsante nelle parole dello stesso Keats, che da sole bastano, in un paio di sequenze, a riempire una stanza o l'intero grande schermo.
Per la bravura degli attori (Abbie Cornish è davvero luminosa), per il rigore della forma e per capire cos'è il vero amore romantico (nel senso migliore del termine, che purtroppo abbiamo dimenticato), questo film merita di essere visto.
Magari un filino di miele in più, anche in dose minima, non avrebbe guastato, e se ve lo dice una che guarda volentieri anche un Terminator Salvation o un Fight Club... :-)
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lunedì 7 giugno 2010

LA NOSTRA VITA - Mah...

Decisamente Daniele Luchetti ci ha presi per i fondelli, facendoci credere che la canzone simbolo di questo film sia “Anima fragile” di Vasco Rossi, mentre lui aveva probabilmente in testa, girandolo, “Viva l'Italia” di Francesco de Gregori.
Perché, apparentemente, questa dovrebbe essere la storia di un uomo innamorato e padre di famiglia che perde la trebisonda dopo un dramma familiare, trovando poi la forza di andare avanti per amore dei figli... ma, in realtà, per tre quarti del film si parla di pasticci tutti evitabili con un minimo di buon senso e di palazzine da costruire grazie alle contraddittorie malefatte “tipiche” del Bel Paese... e alla fine non si capisce dove il tutto voglia andare a parare.
E così, “nell'Italia derubata e colpita al cuore”, “l'Italia assassinata dai giornali e dal cemento”, “l'Italia che si dispera, l'Italia che si innamora, l'Italia metà dovere e metà fortuna”, il regista fa muovere il sempre bravo (anzi bravissimo) Elio Germano che dà anima e corpo ad uno dei personaggi più stupidi del cinema di casa nostra.
Scusate la stroncatura, che certo l'intensa interpretazione di Germano non meriterebbe, ma non basta la bravura di un attore a fare bello un film e soprattutto a rendere credibile un personaggio in cui, a conti fatti, nessuno vorrebbe mai immedesimarsi.
Cattivo o veramente stronzo non è, e questo già gli toglie fascino.
No, il protagonista è solo un po' sempliciotto e capiamo fin dall'inizio che l'unico lato positivo è che vuole bene alla sua prole, ma che, nonostante questo, farà solo cazzate per tutta la durata della pellicola.
Senza avere la “scusante” di essere un disoccupato, veramente depresso, senza amici e famiglia disposti a dargli una mano, insomma senza essere davvero in un vicolo cieco come i personaggi di Ken Loach (che Luchetti non riesce ad imitare neanche lontanamente), s'incasina da solo la vita con le seguenti modalità:
- sceglie l'omertà non denunciando un incidente mortale sul posto di lavoro,
- ricatta un suo amico per ottenere un subappalto,
- per avviare l'impresa chiede i soldi ad uno spacciatore,
- assume tutti extracomunitari in nero,
- non è capace di gestire i ritardi e i soldi non bastano,
- si fa prestare degli altri soldi dai fratelli,
- per terminare il lavoro in tempo assume degli altri lavoratori in nero, però italiani.
E di qui il grande punto interrogativo: che cosa vuole dirci questo film?
Forse che er borgataro muratore romano de Roma, che sta a soffrì cantanno a squarciagola er mitico Vasco, rappresenta l'italiano medio?
Mah!
O forse che er borgataro muratore romano de Roma anziché continuare a mantenere la famiglia come faceva prima del dramma (la moglie a casa sfornava bambini senza bisogno di lavorare) rappresenta l'italiano medio subito pronto a ricattare e prendere soldi dalla malavita pur di comprare la Wii ai figli prima che sia Natale?
Mah!
O forse che tutti noi italiani medi abbiamo come vicino di casa uno spacciatore pronto a darci 50.000 euro perché in realtà è il buon Commissario Montalbano sulla sedia a rotelle, va a messa, gli piacciono i bambini e si può usare anche come baby sitter?
Mah, anzi MA PER FAVORE!
O forse che il lavoro in nero è indispensabile per chiunque, ma che se uno vuole una cosa fatta bene i lavoratori da mettere in nero devono essere italiani e non extracomunitari?
Mah all'ennesima potenza!
Non si sa. Davvero, al di là dell'ottima recitazione degli attori (anche di Raul Bova :-)), il senso della sceneggiatura è incomprensibile.
L'unica cosa che si capisce, anche quella da subito, è che l'italiano medio, anzi, chiunque si salva solo se ha una famiglia alle spalle che fa cordone nei momenti di difficoltà (e grazie a Dio spesso ce l'ha sul serio).
Il protagonista, invece, lo capisce solo vagamente e non si è neanche sicuri che abbia imparato qualcosa dai macelli che, avendo l'unico obiettivo dei soldi come panacea di ogni male, è andato combinando per tutto il film.
Che s'intitola “La nostra vita”. Nostra? Mah...

venerdì 4 giugno 2010

THE ROAD – in viaggio verso il futuro


“Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l’inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo...”
Questo l'incipit letterario di The Road, di Cormac McCarthy, che ben rende, nella sua essenza, anche l'atmosfera di ansia e di gelo di questa trasposizione cinematografica.
Un'ansia e un gelo assolutamente funzionali e coerenti alla durezza della storia narrata, che ci restituiscono con fedeltà toccante la morsa che stringe corpo e anima nell'inverno post-catastrofico fotografato da McCarthy nel suo libro.
Per tutto il film sono inevitabili la tensione e il brivido freddo che ci serpeggiano addosso, lungo la schiena e nella mente, poiché la trama prevede un estenuante viaggio e una continua lotta per la sopravvivenza di un padre ed un figlio alle prese con un'umanità in cui i “buoni” si contano sulla punta delle dita ed i “cattivi” praticano nella realtà il peggiore degli incubi che una società possa attuare...
Ma non appena l'orrore si affaccia sulla scena, il regista ci mostra solo quanto basta a farci arpionare il bracciolo della poltrona per qualche istante. Non gli interessa spingere sull'acceleratore del macabro oltre la soglia del sopportabile (rischio che ha saputo evitare con grande sobrietà e rigore): vuole piuttosto che lo spettatore veda solo quello che gli stessi personaggi vedono e nello stesso lasso di tempo, a volte rapidissimo.
Così la nostra immedesimazione e il nostro coinvolgimento risultano più completi ed è meno offuscata la nostra capacità di intuire che oltre il grigio e la paura c'è dell'altro, qualcosa di molto profondo e radicato nell'intensità di questa storia e dei suoi protagonisti e che merita una visione al cinema.
Per evitare spoiler il più possibile, dirò che il messaggio di speranza di cui molti parlano sta nell'eredità: quello di buono che lasciamo alle generazioni future non va sprecato e anzi viene assorbito più di quanto noi stessi crediamo possibile e addirittura migliorato.
Davvero l'allievo supera il maestro e le colpe dei padri non ricadono sui figli, ma anzi trovano riscatto nello sguardo puro di un bambino.
Nota di merito per la bravura del “vecchio” Viggo Mortensen e del giovane Kodi Smit-McPhee... E nota di demerito per la distribuzione italiana che ha catapultato in piena primavera un film così prettamente invernale. Non lasciate che questo vi scoraggi. Buona visione.
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lunedì 8 marzo 2010

Se Avatar NON trionfa agli Oscar...

...un motivo ci sarà.
E infatti c'è.
La Sostanza ha vinto sulla Forma.
Chi l'avrebbe detto?
Non era mica scontato che l'Academy sfoggiasse questo guizzo purista, senza lasciarsi ipnotizzare dall'estetismo (e dalla subliminale traccia incisa in ogni fotogramma: COLOSSAL COLOSSAL COLOSSAL) di Avatar...
Quel gran furbone di Cameron si sarà mangiato le mani, dovendosi “accontentare” del vil denaro (2,3 miliardi di dollari ha incassato il suo film nel mondo), ma rinunciando alla sempiterna consacrazione nell'Olimpo cinematografico che solo la dorata statuetta sa dare.
E qui, al caro James, verrebbe da fare una ramanzina, verrebbe da dirgli: “Vecchio volpone, che ti costava fare un piccolo sforzo in più e regalarci il vero capolavoro che non avrebbe avuto né pari né rivali? C'eri quasi, eri a un passo: un minimo d'impegno sulla qualità della sceneggiatura ed era fatta!”.
Come un bravo cuoco, si è esibito ai fornelli per metterci nel piatto una ricetta composta da tutti i nostri ingredienti preferiti, sfornando una composizione da mangiare con gli occhi (e che bella scorpacciata ci siamo fatti...).
Ma non ha osato sorprenderci con l'ingrediente segreto, il tocco originale... e nella gara come miglior chef è stato fregato dall'ex moglie.
Peccato per Cameron, ma, che dire? Evviva Kathryn Bigelow!
Questa signora del cinema sfoggia un curriculum breve, ma intenso e molto lontano dalle mega produzioni tipicamente hollywoodiane.
Il suo miglior film The Hurt Locker costato "solo” 11 milioni di dollari contro i 270 di Avatar, non l'avrà visto ancora nessuno fuori dagli States, ma un film della Bigelow un'occhiata la merita sempre.
Riguardatevi Point Break, Strange Days (sceneggiato da Cameron! n.d.r.) e Il Mistero Dell'Acqua per capire di cosa sto parlando.
Nel frattempo, Storia vince su Effetti Speciali, Bidimensionale vince su Tridimensionale, Carne e Ossa e Polvere e Sudore vincono su Digitale e Patinato.
Che il buon Cameron faccia tesoro di questa lezione di stile e non si lasci sfuggire un'altra volta l'occasione di un favoloso masterpiece con Avatar 2.
Noi estimatori lo aspettiamo al varco.

mercoledì 3 febbraio 2010

AVATAR

Mi piacciono questi registi che del cinema hanno capito tutto.
James Cameron che, non dimentichiamolo mai, ha diretto Titanic, sa cosa vuole lo spettatore e, adesso che con la computer-grafica ogni sogno immaginato può diventare “realtà”, glielo offre confezionato su misura come il più perfetto abito d'alta sartoria.
La storia è quella dei migliori western, con i cattivi visi pallidi contro i pacifici indiani.
I primi, come da tradizione, vogliono a tutti i costi accaparrarsi le risorse minerarie del territorio (l'oro del futuro si chiama unobtanium, costo: 20 milioni al chilo) e sono forniti di tecnologia e artiglieria di primissima scelta e avanguardia: alla stupenda scenografia non si potrebbe chiedere di più.
I secondi sono forniti “solo” di qualità straordinarie: una statura -fisica e morale- straordinariamente superiore a quella umana; una straordinaria empatia con la Natura, con gli Alberi, con gli Spiriti della loro terra e dei loro Antenati; una straordinaria abilità come cacciatori e guerrieri; una straordinaria destrezza come cavalieri, una straordinaria capacità di domare/pilotare creature volanti cugine dei Draghi... Praticamente uno straordinario incrocio del 2.154 tra i Nativi d'America e gli Elfi Silvani.
In mezzo sta il più puro antieroe/eroe che, dopo aver reso il giusto tributo tanto alla figlia del capo quanto a Madre Natura, da semplice caporale dei marines si trasformerà in Soldato Blu: guiderà gli indigeni alla riscossa non prima del discorso di rito, a metà tra il William Wallace di Braveheart e il Re Aragorn al Nero Cancello di Mordor...
Da come ne sto parlando -ironicamente- potrebbe sembrare che il film non mi sia piaciuto.
Errore. AVATAR è bellissimo.
Al di là della sceneggiatura già nota (e comunque rispettabile seppur banale), tutto quanto il resto è davvero magistralmente spettacolare e merita in modo assoluto di essere visto su grande schermo.
La classica trama di fantascienza, il fantasy più aulico (elfico-new age, appunto), l'azione, l'epica e l'avventura sono cuciti tra loro e così finemente intrecciati con i sublimi effetti speciali che vi sembrerà di ammirare un superbo arazzo: ricco di dettagli tutti ricamati minuziosamente, dove ogni particolare vi riempirà gli occhi per come è stato intessuto con la più accurata perfezione.
A due o tre dimensioni che sia (tanto, se foste seduti in posizione laterale con gli stramaledetti occhialetti scurenti perdereste comunque buona parte dell'effetto 3D...) andrebbe guardato più di una volta: l'onore che spetta a tutte quelle cose belle dove da vedere c'è così tanto che non basta una sola occhiata.
Per la lunghezza chilometrica non vi spaventate: come ho già detto, James Cameron (qui anche sceneggiatore) sa a tal punto il fatto suo che, alla fine, non vi sarà possibile credere di aver passato quasi tre ore seduti su una poltrona del cinema.
Quando si dice conoscere il mestiere.

lunedì 1 febbraio 2010

L'UOMO CHE VERRA'

Questo film, particolarmente bello, parla della Storia, quella che pochi di noi conoscono davvero, mentre i più ne hanno a malapena un vago ricordo o ne hanno solo sentito parlare.
La Storia di un'Italia in cui affondiamo le radici senza neanche saperlo.
La Storia che non si può cambiare.
La Storia che si può e si deve raccontare, ma su cui piangere sarà inutile, perché la Storia quella è e quella rimane.
Attoniti spettatori la staremo a guardare, in buona parte attraverso gli occhi di una bambina (straordinaria e meravigliosa l'esordiente Greta Zuccheri Montanari) che per scelta resta muta di fronte alle tragedie della vita.
Ce l'hanno insegnato i nostri nonni (o bisnonni), per chi ha avuto la fortuna di starli a sentire, che stare al mondo è anche fatica e dolore, ma non serve sprecarci sopra tante parole, serve solo continuare a vivere.
E' con questo spirito, asciutto e parsimonioso, senza gli sprechi tipici di certo cinema melodrammatico, che Giorgio Diritti, poeta del grande schermo, ci racconta microcosmo e macrocosmo della campagna emiliana del 1944 alle soglie di un eccidio realmente avvenuto.
Il microcosmo è quello inventato, ma ricostruito minuziosamente e fedelmente nei dettagli quotidiani, di una famiglia che fa da filo conduttore. Prima ci ricorda com'eravamo e da dove veniamo, perché se siamo vivi lo dobbiamo alla terra e ai contadini che l'hanno lavorata e per essa sono morti.
Poi ci traghetta verso una tragedia annunciata, frutto di un'infausta stagione, e quella non è per niente inventata: la stagione della guerra. Se l'uomo decide di farla, non importa da che parte starà perché diventerà per forza ingiusto, spietato e crudele.
Spietato e crudele è anche lo stile che sceglie il regista nella presentazione ultima dei fatti: la sua innata maestria - perfetti movimenti di macchina ad altezza bambino, perfetta e nitida fotografia, perfetta resa dei bravissimi attori e della presa diretta del dialetto locale...- è senza compiacimenti, ma è una perfezione che non ci consola.
Come per i 770 morti della strage di Monte Sole non vi è stata possibilità di appello, così pure lo spettatore non troverà un attimo di tregua nel montaggio serrato che non vuole regalarci dissolvenze romantiche nel drammatico susseguirsi degli eventi. Spesso invece si spezza, rapido e brusco, come rapidamente e bruscamente si spezzano le vite di quegli innocenti.
L'Uomo Che Verrà è una stupenda pellicola che all'emozione tipica del buon cinema unisce il valore di un reperto storico: la sua visione ci arricchisce. Un'occasione da non perdere.
Pubblicato anche su MyMovies.it

venerdì 8 gennaio 2010

SHERLOCK HOLMES

Fate come me. Sfidate la tempesta di neve, il freddo, le scivolate sotto i portici o sui marciapiedi e correte al primo spettacolo utile, magari al primo del pomeriggio, così sarete in quattro gatti e vi sentirete dei veri appassionati.
Ne sarà valsa comunque la pena se in sala stanno proiettando l'ultima fatica di Guy Ritchie, il regista che azzecca una pellicola ogni 5 e, per nostra fortuna, stavolta si tratta di quella buona.
In questo SHERLOCK HOLMES troverete tutto quello che avreste sempre voluto vedere in un film sul famoso investigatore e non avete mai osato chiedere.
Naturalmente parlo a quelli di voi che amano un pizzico di scoppiettante commistione di generi e l'intrattenimento ben confezionato, capace di divertirci dosando humor all'inglese con montaggio all'americana.
Se siete dei puristi, affetti da nostalgia per la mantellina e il cappello a quadretti dell'icona Basil Rathbone (classe 1892), se vi aspettate, che so, un Dottor Watson bassotto e tarchiatello, se non vedete l'ora di sentire nuovamente pronunciata la leggendaria (ma non letteraria) frase: “Elementare, Watson!”, evitate questo film come la peste per non avere cocenti delusioni.
Se invece vi piace Lo Spettacolo, allora vi dirò che i tre sceneggiatori, Michael Robert Johnson, Antony Peckham e Simon Kinberg, pare abbiano fatto a gara per tirare fuori il loro miglior brio e poterci regalare azione e atmosfera, intrigo e commedia, tensione e sorrisi, e mantenere viva la nostra attenzione dall'inizio alla fine.
Ai nostri sensi più coinvolti dal grande schermo nulla è negato.
Per l'udito abbiamo: da un lato, le schermaglie tra i personaggi, dove, ad esempio, le famigerate deduzioni del nostro eroe si accompagnano a dialoghi vivaci, rapidi e godibili.
Dall'altro la colonna sonora di Hans Zimmer, un collaudato professionista, che qui mixa giustamente citazioni come il banjo alla Spaghetti western e il refrend alla Attenti a quei due, con autocitazioni che evocano atmosfere da Codice Da Vinci e Pirati dei Caraibi.
Per gli occhi è domenica: ci rifacciamo la vista tra costumi ottocenteschi ben rivisitati e belle scenografie sia d'interno che d'esterno, tra inseguimenti, esplosioni e lotte, tutte ottimamente coreografate, dove regista e montatore fanno anche sfoggio, ma senza mai sbavare, di un “sapiente uso del rallenty” (adoro usare questa espressione! :-)).
I maschietti si rifaranno la vista anche su occhioni e labbrone di Rachel McAdams... ma a noi femminucce è toccato il meglio, col più fico Dottor Watson della storia del cinema, un “solo sulla carta” improbabile Jude Law.
Su pellicola, invece, risulta perfetto e credibile, a suo agio come generosa spalla, impeccabile persino nei dettagli di stile, come un accenno di sorrisetto sotto i baffi o un sopracciglio alzato.
So di essermi dilungata più del solito, ma devo necessariamente spendere due parole per il protagonista: quell'eccezionale faccia da schiaffi di Robert Downey Jr.
Robert chi?” avreste detto negli anni Novanta, quando la sua fedina penale era più animata della sua carriera e il suo volto si andava segnando per l'abuso di alcool e droghe.
L'attore, che è saputo risorgere dalle sue ceneri, è tornato alla ribalta nel 2000, partecipando alla serie televisiva Ally McBeal, da cui ha spiccato il volo per attraversare l'ultimo decennio in evidente stato di grazia.
Nei suoi occhi scuri arde una vena di pura follia non lontana dal vero fuoco sacro.
Oltre a ripescare gli episodi (dal 68 al 90) del telefilm, v'invito alla visione di almeno 3 titoli cui sono affezionata: KISS KISS BANG BANG (2005), TROPIC THUNDER (2008) e il non sottovalutabile IRON MAN (2008), spettacolare anche per la performance del suo interprete.
In attesa del sequel di quest'ultimo, assolutamente da non perdere l'attuale SHERLOCK HOLMES, vero antesignano di CSI: Downey Jr. l'ha ridisegnato con caratteri assolutamente personali, ironici e intriganti che, come avrete capito, mi sono piaciuti assai.
Di questo film, persino i titoli di coda (se apprezzate un minimo l'illustrazione) vale la pena di guardare.


martedì 5 gennaio 2010

Piovono polpette VS La Principessa e il Ranocchio

Non c'è verso di schivarla. Siamo destinati a subire la “nuova frontiera” del cinema, ovvero il 3D.
In attesa di abituarci a sforzare la vista e forzare il portafogli - ma davvero un paio di occhiali di plastica scura, persino usa e getta o da restituire all'uscita (!), può giustificare il prezzo astronomico del biglietto? - si può tenere i piedi in due staffe.
Materiale a iosa ci viene fornito, per cominciare, dal rigoglioso e rifiorito panorama del cinema d'animazione, che sforna invitanti pellicole per tutti, ma proprio tutti tutti, i gusti.
Ad esempio, questo Natale potevamo schizofrenicamente dividerci tra tradizione e innovazione, alternando tuffi nel passato bidimensionale con La Principessa e il Ranocchio, a balzi nel futuro computerizzato con Piovono polpette 3D.
In entrambi i casi si può godere di un prodotto di una certa qualità, ciascuno a modo suo.
Sul genere classico, dai bei disegni dal sapore retrò, per chi predilige l'effetto matita al tratto digitale, per chi ha amato il jazz degli Aristogatti e non si stufa di sentire una canzone dietro l'altra, per chi aspetta caparbiamente l'happy ending, è assolutamente consigliato il primo dei due lungometraggi.
Anche se, in tanto tradizionalismo non mancano le stranezze.
La bella ragazza di New Orleans che, invece di sognare ad occhi aperti e aspettare il principe azzurro, lavora dalla mattina alla sera, convinta che solo con l'olio di gomito potrà realizzare il suo sogno imprenditoriale, potrà stranamente insegnarci un po' di tenacia.
Il cattivo mefistofelico che pratica magia nera e vodoo è stranamente da brivido al punto giusto, la bionda viziatissima che sogna il matrimonio d'interesse è stranamente simpatica, amichevole e generosa, la morte di uno dei buoni è stranamente in agguato, il principe, seppur bello come al solito, è stranamente spiantato, fannullone, libertino e perditempo.
Insomma, tra una strizzata d'occhio al passato e una al presente, ci si può far cullare un pochino nei “buoni sentimenti alla Walt Disney” e ogni tanto male non fa.
Poi i bambini applaudono a fine pellicola (io c'ero).
Per chi ha fame di qualcosa di più sostanzioso, con meno romanticismo e più azione, personaggi da telefilm americano e ottime battute, futuristiche invenzioni e gustosi tormentoni, sceneggiatura più corposa e medesimi buoni sentimenti, ma meglio elaborati, è preferibile orientarsi sulla pioggia di polpette giganti.
Delizioso il protagonista, lo scoppiatissimo Flint, giovane scienziato geniale che nel suo essere timido, incompreso e pazzoide ha comunque un qualcosa di davvero fico.
Singolare, per un cartone, il fatto che nutra rancore e sogni di rivalsa abitualmente affibbiati ai cattivi, e in particolare agli scienziati pazzi cattivi, mentre lui, antieroe alle prese con l'invenzione del secolo che rischia di distruggere l'umanità per eccesso di modificazione genetica, è decisamente buono e meno imbranato di come solitamente dipingono certi topi di biblioteca.
Oltre all'evidente metafora sul consumo sfrenato ed eccessivo di cibo, occhio alla ricerca dell'approvazione paterna: è iniziata con Nemo e prosegue di pellicola in pellicola la rivalsa dei papà, per troppo tempo messi in ombra da super-mamme protagoniste che bastano a se stesse e che quindi ora hanno bisogno di una rimarcata alla loro utile identità educativa.
Detto questo, lascio scegliere a voi il vincitore della sfida dimensionale. Ai posteri...